La seconda edizione della ultramaratona/maratona “6 Ore dei Templari – Memorial
Vito Frangione”, si è chiusa lo scorso otto maggio, raccogliendo riscontri
positivi ed ottime recensioni. A distanza di qualche settimana, è giunto il
tempo della riflessione.
In termini organizzativi quello che si nota, passando da una prima ad una
seconda edizione, è una maggiore padronanza (dove maggiore non significa per
questo esaustiva) dei meccanismi gestionali, forse una minore ansia
accompagnata, comunque, dalla solita, contagiosa adrenalina e quindi, tutto
sommato, è proprio vero che l’esperienza insegna. Al contempo, però, si nota
anche quella che non si fa fatica a chiamare “perdita dell’innocenza”: l’
incanto della prima volta, le emozioni che la accompagnano, lo stupore negli
occhi degli altri, cambiano colore e tono di voce. Tutto è un po’ più
efficiente, tutto è un po’ più smaliziato, e allora ci si chiede se il successo
delle grandi manifestazioni non dipenda dalla capacità di crescere, non
soltanto in termini di numeri. La “6 Ore dei Templari” è nata con uno spirito
schietto, amichevole, semplice e, forse, questo spirito è stato il suo punto di
forza al punto da poterne diventare il marchio. Ed è quando lo spirito diventa
un marchio che la ruota inizia a girare diversamente: a Banzi e, in generale,
in Basilicata, è ancora presto per parlare in questi termini, ma di certo gli
ingredienti ci sono tutti. C’è un luogo splendido, per molti versi addirittura
incontaminato, c’è gente generosa ed accogliente, ci sono volontari dalle
ottime doti, istituzioni sensibili e disponibili a collaborare ma, soprattutto,
c’è un evento che ha un grande potenziale di crescita.
Fin qui, nulla da eccepire. Finché non ci si chiede: in che direzione si
ritiene sostenibile crescere? Si cerca un’ottica imprenditoriale, si intende
mantenere intatto lo spirito della prima e, in parte, della seconda edizione,
oppure si vuole curare il particolare a partire dal generale?
Proviamo a spiegare meglio…
Se una manifestazione sportiva ha grosse ambizioni, deve puntare molto in
alto, ricevere un sostegno costante, sia in termini economici che umani, deve
diventare un appuntamento istituzionale e dotarsi dei mezzi tipici di una
società a tutti gli effetti: comunicazione, marketing, pubbliche relazioni,
contatti con gli sponsor, ma soprattutto progettazione ed amministrazione. Deve
uscire fuori dai confini, regionali e nazionali, trasformarsi completamente in
marchio ed abbandonare qualsiasi ottica miope. Se, d’altro canto, intende
mantenere intatto il proprio spirito, una manifestazione sportiva non deve
dimenticare che lo sport è il proprio obiettivo primario, ed il benessere degli
atleti è il suo credo. Un tale scopo implica generosità, disinteresse, la
valorizzazione della propria identità non come marchio, ma come impegno di
ciascuno nell’essere e nel darsi al meglio di sé, però per una causa comune.
Tutto ciò significa mettere in atto una forza centripeta che punta al
territorio, ai comuni vicini, alla gente del posto, con la testa aperta quanto
il mondo intero. Forse, questa, è la sfida più difficile da raccogliere.
Quella che, invece, sarebbe meglio non raccogliere mai, tratta una
manifestazione sportiva come un mezzo perché ognuno, dal singolo volontario all’
istituzione, passando per l’atleta ospite, possa curare il proprio interesse
particolare. In casi simili, il disastro è dietro l’angolo e a perderci è la
qualità organizzativa, tecnica, ma soprattutto umana. Si tratta di un rischio
che corrono tutti i piccoli eventi carichi di promesse: spesso vogliono fare il
salto di qualità, ma lo fanno solo nella testa di chi intende fare il proprio,
magari scimmiottando uno spirito ormai bello che perduto. Ecco: dovendo
auspicare un futuro per la “6 Ore dei Templari”, questo è l’ultimo che
sognerei.
Nel tripudio di quei due giorni così colorati di bambini, di atleti, di
prodotti tipici, ma soprattutto di sport, qualcuno vendeva i panini, qualcuno
mancava senza avvertire nonostante le tante promesse, qualcuno capiva il
potenziale volume d’affari e si faceva, a suo modo, pubblicità, qualcuno
cercava la mano da stringere, ma non per amicizia, qualcuno pretendeva senza
chiedere, qualcuno chiedeva senza domandarsi, qualcuno chiedeva del campione
senza accorgersi dell’uomo, e chiunque potrebbe pensare … “Niente di nuovo,
sotto il sole. Siamo esseri dannatamente umani!” ma tutto questo, a chi sognava
un tempo una piccola gara tra amici, sembrava come una sottile, impercettibile
crepa in un palazzo di rara bellezza.
Dovendo auspicare un futuro per la “6 Ore dei Templari”, penso ad un’intera
comunità che si impegnerà in prima persona scegliendo, secondo le proprie
possibilità e l’esperienza maturata in questi due anni, la strada più
praticabile: l’ambizione, oppure lo spirito.
Personalmente, nessun velocista internazionale e nessun campione blasonato,
nessun titolo sui giornali nazionali e nessun complimento valgono un sindaco
vestito da templare, un’atmosfera autentica e familiare, il fascino di qualche
piccola imperfezione risolta “a modo nostro”, la medaglia al collo di un
bambino e gli amici, vicini e lontani, che restano anche quando la festa è
finita.
Gabriele Mazzoccoli


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